Durante la dittatura fascista la Libia fu enfaticamente presentata da Mussolini come la quarta sponda da conquistare, il posto al sole che gli Italiani meritavano di avere; di fatto, per molti si rivelò uno scatolone di sabbia che non corrispondeva affatto alle aspettative. Questo ci dice la Storia, ma quei fatti sono composti da tante storie individuali, come quella dell’autore: un racconto autobiografico vissuto intensamente durante un’infanzia che ancora oggi ricorda come un periodo particolarmente felice. Attraverso gli occhi del protagonista, il lettore si immergerà in quei paesaggi aridi ma incantati, continuamente sferzati dal Ghibli, il vento caldo del deserto che fa da sottofondo a tutte le vicende narrate nelle lunghissime ma meravigliose giornate africane. Sono anni intensi, durante i quali i giochi infantili e le relazioni sociali si svolgono sullo sfondo di una realtà placida e riarsa dal sole, dove tutto accade a rallentatore e, forse proprio per questo, ogni cosa è percepita come più profonda, più reale. Dalla memoria emergono personaggi ben distinti, vividi: Ibrahim, la bella Fatima, lo zio Edoardo, i Tuareg di passaggio nelle proprietà della famiglia, l’invasione delle cavallette nel 1960. Significativo è anche il rapporto con la natura del luogo; l’anno viene scandito dai tempi della raccolta dei cereali, delle mandorle e delle olive. Il 1962 porrà definitivamente fine all’avventura libica dell’intera famiglia: si tratta del rientro in Italia, descritto come un’epopea, un viaggio prima in nave e poi in treno verso il nord Italia, un viaggio indelebile nella memoria. Quando il treno giunge a Milano è la fine di un’era della vita, ma anche l’inizio di qualcosa di nuovo.