Questo romanzo nasce dal desiderio dell’autrice di meglio comprendere quella che è stata la difficile esistenza dell’uomo primitivo, avvicinandosi ad esso con umiltà e senza pregiudizi. Conoscerne le paure, le difficoltà, la precarietà, la solitudine. Il romanzo prende l’esordio da quando l’ominide viveva ancora in Africa, rifugiandosi sugli alberi per sfuggire ai molti pericoli che lo circondavano. Già allora però, e l’autrice ne è convinta, possedeva una sua interiorità, anche se a livello molto confuso perché ciò che allora prevaleva in lui erano le necessità fisiche. Poi, con un salto temporale, ci ritroviamo nel Neolitico. Il nostro ominide si è evoluto, è cambiato nell’aspetto, vive in un contesto sociale, ha scoperto il fuoco. Il romanzo infatti continua narrando in maniera vera o verosimile, le vicende quotidiane di un villaggio preistorico: la caccia per procurarsi il cibo, i pericoli che si trovano ad affrontare, costumi ed usanze, i giochi dei bambini, la vita e la morte. Su tutto prevale il rispetto reciproco, la saggezza dei Capi, l’amore profondo per Madre Natura e per tutte le sue Creature, indistintamente. Il finale poi è certamente a sorpresa. L’uomo, in qualunque epoca e in qualunque luogo si ritrovi a condurre la propria esistenza, non cambia nel suo “Io” più profondo, nei suoi sentimenti umani, nella sua interiorità, al di là delle esperienze positive o negative.