Secondo di una trilogia di cui costituisce la parte più travagliata e sofferta, il romanzo intende indagare la profondità della solitudine, l’ineluttabilità della morte e, attraverso il dolore che da entrambe si genera, la necessità e l’impossibilità di credere in un Dio che possa salvarci da noi stessi e dal bisogno intimo, morboso e naturale di cedere al dubbio. L’azione si apre in una stanza in cui il protagonista ha appena assassinato la sua ragazza. Viene arrestato, condannato all’ergastolo e chiuso in una cella, in cui conosce gli stadi progressivi e successivi di una solitudine sempre più profonda eppure via via più feconda. L’ineluttabilità della morte, l’idea pressante e quotidiana della sua presenza, l’oscuro sentore del nulla lo condurranno a fare i conti col proprio passato, obbligandolo ad analizzare e progressivamente distruggere tutte le solide infrastrutture che la sua coscienza aveva creato per consentirgli di sopravvivere ai sensi di colpa. Resosi conto che del suo vecchio e solido mondo non è rimasto nulla, capirà che l’ultimo e unico appiglio cui l’anima possa aggrapparsi per non svanire nel terrore del vuoto e del silenzio della morte è Dio. Lo cercherà con ogni mezzo. Lo amerà per blandirlo affinché si manifesti; e lo odierà per l’impossibilità di sentirlo. Ma, ogni volta, la sua razionalità, il dubbio che da essa germoglia, il senso di abbandono e il dolore di una morte precoce e di una vita senza senso, gli impediranno di trovarlo. Sul letto di morte, dovrà scegliere se cedere ad una fede riposante e consolante o morire solo, con la ferita di un dubbio che diventa condizione necessaria di un’anima in continuo travaglio.