D’un tratto ebbi come la sensazione che laggiù, nel frutteto, qualcosa si fosse mosso: come un lieve bagliore, un momento di luce brevissimo… ma non ero sicuro, in realtà non riuscivo a vedere bene e allora asciugai più volte la maschera di terra e sudore che mi grondava dalla fronte e che gocciolava lungo il viso, provando con le mani a rischiarare gli occhi e a ripararli dal bruciore e dai raggi accecanti del sole che stava tramontando. I passi che percorrevo, quelli che mi stavano avvicinando al frutteto, diventavano sempre più pesanti, incerti, insicuri e l’andatura era claudicante, facevo fatica a rimanere in piedi nella distesa giallo-arancio di calendula che rivestiva, come fosse una pavimentazione, quegli ettari di terreno; le suole delle mie scarpe da lavoro trovavano l’impatto con quella superficie per inerzia. La voce e quella cantilena sempre più forte, insopportabile… “«La-llà, La-llà, La-llà, La-lla-la-llà, la-lla-lla» e poi ancora «La-llà, La-llà, La-llà, La-lla-la-llà, la-lla-lla.» Frastornato, confuso, stanco: giunto ai piedi del primo albero persi il piede di appoggio e caddi di soppiatto.