Il saggio vuol trattare in maniera ampia e articolata il tema della pena e della carcerazione, partendo da ciò che storicamente era considerato “giusto” poter fare contro qualcuno che avesse commesso atti contro il sentire e vivere comune della società, fino ad arrivare ai giorni attuali con la possibilità di poter usufruire di pene alternative alla detenzione. La detenzione ha vissuto varie fasi storiche e ideologiche, che l’hanno vista coincidere in alcuni periodi con la privazione della libertà in attesa della pena che sarebbe stata inflitta di seguito dal “signore” che in quel momento deteneva il potere, fino ad arrivare a oggi che la detenzione è usata come privazione della libertà a uso punitivo. In un contesto che si basa sull’attuare un’istituzionalizzazione totale della persona per arrivare alla depersonalizzazione della stessa, si annida il più delle volte il seme di patologie psichiche e fisiche che niente hanno a che fare con il recupero e la rieducazione del soggetto che dovrebbe essere aiutato a reinserirsi nella società da “uomo nuovo”. Il carcere così diviene, il più delle volte, una vera scuola di malavita dove chi è più avanti “nell’arte criminale” insegna a chi è meno esperto. In un contesto che fonda la detenzione sulla repressione e le fobie, nasce in Brasile il metodo APAC, primo modello di carcerazione che non si avvale delle guardie, ma totalmente gestito dai detenuti in questo contesto chiamati “recuperandi”, il metodo è trasportato in Italia dalla Comunità Papa Giovanni XXIII con il nome di CEC; Comunità Educante con i Carcerati. I metodi si fondano sul principio di base che “l’uomo non è il suo errore” e che “recuperando” aiuta “recuperando” all’educazione vicendevole, così da poter far uscire alla luce quelle parti rimaste nell’ombra di questi uomini e donne in modo che essi non saranno più “pietre scartate dai costruttori”, ma bensì “pietre angolari”.